Nell’arco di poche settimane, l’Istat ha presentato una sequenza di immagini dell’Italia che, da diverse angolature, evidenziano criticità radicali: la prosecuzione del cosiddetto “inverno demografico” caratterizzato da svuotamento delle culle e impoverimento della struttura demografica; la perdita di circa 945mila posti di lavoro nell’anno della pandemia; da ultimo, la presenza cospicua di imprese strutturalmente a rischio e che ritengono di non riuscire più ad aprire i battenti alla ripresa delle attività.
Se non fosse che la gravità della pandemia costringe i decisori a rincorrere le emergenze, su questi argomenti si dovrebbe aprire un vero e proprio brain storming nazionale per individuare le strategie più urgenti ed efficaci da mettere in campo. Anche perché sono esiti che affiorano in misura sempre più preoccupante, ma non da oggi. Infatti, affondano le loro radici nel tempo.
Il cambiamento dei comportamenti riproduttivi della popolazione non è sicuramente una novità, così come la caduta del lavoro è associabile a una produttività che non cresce da diversi anni, così come la lentezza di una parte del sistema produttivo a mutare le proprie strategie di fronte alla digitalizzazione e all’aumentata competitività internazionale. Tutti fenomeni che richiedono politiche e investimenti di lungo respiro. Mentre il Paese è arrivato alla pandemia col fiato corto. Gli esiti di una ripresa demografica si registrano dopo circa 20 anni, così come un aumento della produttività non avviene nell’arco di pochi mesi. Affrontare la ripartenza senza una visione di medio-lungo periodo, rischia di gettare al vento l’occasione irripetibile del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).
Vanno scardinate almeno due sindromi che attanagliano da troppo tempo il sistema-Paese.
La prima è l’asimmetria fra la velocità dei cambiamenti e la nostra capacità di risposta. Gli esempi sono molteplici, non ultimo la vicenda della gestione della campagna vaccinale. Ma si pensi al funzionamento della macchina burocratica rispetto alle esigenze delle imprese. Piuttosto che alla realizzazione delle opere pubbliche. Oggi tutti invocano il modello applicato alla costruzione del ponte Genova San Giorgio (l’ex Morandi): edificato in poco meno di due anni, quando in condizioni normali per una simile infrastruttura ci sarebbero voluti almeno due lustri. Semplificare per aumentare la capacità di risposta è un primo obiettivo strategico.
La seconda sindrome è l’ascensore sociale bloccato. Anzi, per diverse famiglie ha imboccato un percorso discendente. Un riverbero lo troviamo nella percezione degli italiani (Reputation Science per Open Fiber). Il 56,7% si ascrive oggi a una classe medio-bassa. Sommando a questi il 9,0% che si colloca nella fascia bassa, otteniamo che i due terzi della popolazione (65,7%) si situano nella parte inferiore della stratificazione sociale. Quota che, nel 2016, era il 59,2%. All’opposto, il 34,3% si posiziona nella fascia medio-alta e alta, ma era il 40,8% un lustro addietro. Dunque, assistiamo a uno slittamento verso il basso di una parte delle classi sociali, confermando l’arresto del processo di “cetomedizzazione” che aveva preso avvio negli anni ’70.
Analizzando i flussi fra i ceti, è più facile che avvenga una mobilità discendente, piuttosto che ascendente. Più della metà di quanti affollano la parte bassa della stratificazione sociale provengono dalla classe medio-bassa (48,7%) e medio-alta (6,2%). È il fenomeno di bi-polarizzazione. Da un lato, i ceti medio-alti (78,9%) e alti (83,3%) riescono a conservare più agevolmente le posizioni acquisite. Dall’altro lato, sono in particolare quelli medio-bassi a vedere erose le proprie posizioni. In tutto ciò, la possibilità di prendere l’ascensore sociale in ascesa riguarda meno di un decimo della popolazione (8,8%).
A essere più segnati da una mobilità discendente sono i territori del Centro-Nordest, ovvero le aree caratterizzate da un sistema produttivo diffuso, composte da piccole imprese e lavoro autonomo, per un verso. E, dall’altro, il capitale umano dotato di un livello di istruzione basso. Ciò suggerisce almeno due priorità per il Pnrr. La prima riguarda una revisione strutturale del sistema di welfare che consideri quella parte di lavoro imprenditoriale e autonomo (scelto o imposto dal mercato) che fino a ora era rimasto nel cono d’ombra dei sostegni nei casi di crisi, ma che non può più essere ignorato. Si vedano anche le proteste di questi giorni.
La seconda indicazione riguarda il capitale umano. Opportunamente il Governo ha deciso di investire sull’Istruzione tecnica superiore (Its) e sull’Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) quali canali di formazione delle giovani generazioni per il loro inserimento sul mercato del lavoro e come risposta alla domanda diffusa di tecnici di cui le imprese lamentano la scarsità. Cionondimeno, un’analoga attenzione deve essere dedicata all’Istruzione e formazione professionale (Iefp) costruendo un’integrazione verticale nel sistema formativo tecnico-professionale.
(Fonte: Il Sole 24 Ore)